
Dieci tesi sulla moltitudine
- Il postfordismo [=il contemporaneo 25] e con esso la moltitudine ha fatto la sua comparsa in Italia con le lotte sociali che per convenzione sono ricordate come il “movimento del 1977”. Il contrasto tra moltitudine e popolo fu al centro delle controversie pratiche e teorico politiche del XVII secolo (epoca della fondazione degli stati centrali moderni e delle guerre di religione). Per Spinoza la moltitudine sta ad indicare una pluralità che persiste come tale sulla scena pubblica, nell’azione collettiva, nella cura degli affari comuni, senza convergere in un Uno, senza svaporare in un moto centripeto. Per Spinoza la moltitudo è l’architrave delle “libertà civili”. Hobbes detesta la moltitudine e scaglia contro di essa. Nell’esistenza sociale e politica dei molti in quanto molti, nella pluralità che non coinvolge in unità sintetica, egli scorge il massimo pericolo per il “supremo imperio” cioè per quel monopolio della decisione politica che è lo Stato.
Kant offre un modello molto chiaro del modo in cui è stata concepita la dialettica timore/riparo negli ultimi due secoli. Si ha una netta biforcazione: da una parte un pericolo particolare (una slavina, la perdita del posto del lavoro, la malevola attenzione del Min Interno); dall’altra invece il pericolo assoluto , connesso al nostro stesso stare al mondo. Di fronte a una sciagura fattuale vi sono rimedi concreti. Il pericolo assoluto richiede invece una protezione dal mondo come tale. Si badi: il mondo dell’animale umano non può essere equiparato all’ambiente dell’animale non umano, ossia all’habitat circoscritto in cui quest’ultimo si orienta perfettamente in base a istinti specializzati. Il mondo ha sempre qualcosa di Indeterminato, è carico di imprevisti e sorprese , è un contesto vitale mai padroneggiato una volta per tutte: per questo è fonte di una permanente insicurezza. La distinzione kantiana tra i due tipi di rischio e di sicurezza si prolunga nel discrimine tracciato da Heidegger tra paura e angoscia. Nelle pagine di Essere e temp (§40) l’angoscia è provocata dalla pura e semplice esposizione al mondo, dall’incertezza e dall’indecisione con cui si manifesta la nostra relazione con esso. Analisi storico sociale di queste due forme di timore: la distinzione tra timore circoscritto e timore indeterminato vige là dove vi sono comunità sostanziali, che costituiscono un alveo capace di incanalare la prassi e l’esperienza collettiva. Un alveo fatto di usi e costumi ripetitivi e perciò confortevoli, di un ethos consolidato. La paura si situa all’interno della comunità , delle sue forme di vita e di comunicazione. L’angoscia fa invece la sua comparsa allorché ci si allontana dalla comunità di appartenenza, dalle abitudini condivise, dai “giochi linguistici” risaputi , inoltrandosi nel vasto mondo. Al di fuori della comunità il pericolo è ubiquo, imprevedibile, costante : insomma, angoscioso. Controparte della paura è una sicurezza che la comunità può, in linea di principio, garantire; controparte dell’angoscia (ossia dell’esposizione al mondo come tale) è il riparo procacciato dall’esperienza religiosa. Il concetto di popolo, sia pure con molte variazioni storiche, è legato a filo doppio alla netta separazione tra un dentro abituale e un fuori ignoto e ostile. Il concetto di moltitudine è incardinato invece alla fine di tale separazione.
La distinzione tra paura e angoscia, come quella tra riparo relativo e riparo assoluto è destituita di fondamento per almento tre motivi:
- non si può più oggi parlare ragionevolmente di comunità sostanziali. Oggi ogni impetuosa innovazione [=modernizzazione] non sconvolge forme di vita tradizionali e ripetitive, ma interviene su individui abituati a non avere più solide abitudini;
- non è dunque più possibile una effettiva distinzione tra un dentro stabile e un fuori incerto e tellurico:
- la permanente mutevolezza delle forme di vita, nonché l’addestramento a fronteggiare un’aleatorità senza margini comportano una relazione diretta e continua col mondo in quanto tale , con il contesto indeterminato della nostra esistenza.
Se le comunità sostanziali velavano o attutivano la relazione col mondo , la loro dissoluzione mette quest’ultima in piena luce: la perdita del posto di lavoro, l’innovazione che cambia i connotati alle prestazioni lavorative, la solitudine metropolitana prendono su di sé molti tratti che in precedenza appartenevano ai terrori provati fuori dalle mura della comunità. Bisognerebbe trovare un termine diverso tanto da paura quanto da angoscia, un termine che dia conto della loro fusione. A me viene in mente perturbante [Freud].Oggi tutte le forme di vita sperimentano quel “non sentirsi a casa propria”che, secondo Heidegger, sarebbe all’origine dell’angoscia. Sicché oggi non c’è nulla di più condiviso e di più comune, in un certo senso di più pubblico,del sentimento di “non sentirsi a casa propria”.
Ultimo rilievo critico sulla coppia timore-riparo. E’ sbagliata l’idea secondo cui PRIMA proveremmo un pericolo e, solo POI, cui daremmo da fare per procurarci un riparo. E’ del tutto fuori luogo a questo proposito uno schema stimolo-risposta o causa-effetto. C’è da credere piuttosto che l’esperienza originaria sia quella di procacciarsi dei ripari. Anzitutto ci proteggiamo, poi, mentre siamo intenti a proteggerci, mettiamo a fuoco quali siano i pericoli con cui abbiamo a che fare. In questo quadro il pericolo consiste in un’orripilante strategia di salvezza (si pensi al culto della piccola patria etnica): la dialettica del pericolo e del riparo si risolve in ultimo nella dialettica tra forme alternative di protezione. Ai TEMIBILI RIPARI si oppongono RIPARI DI SECONDO GRADO, capaci cioè di fare da antitodo ai veleni dei primi. Dal punto di vista sociologico e storico non è difficile rendersi conto che il male si esprime proprio e soltanto come replica ORRIBILE alla rischiosità del mondo, come pericolosa ricerca di protezione: basti pensare alla tendenza ad affidarsi a un sovrano, allo sgomitare convulso per la carriera, alla xenofobia.
Biopolitica (Focault) = amministrazione politica della vita = amministrazione politica della “Forza-lavoro” come facoltà, capacità, dynamis, potenzialità ->il governo politico della vita è assai vario, spaziando per esempio dal contenimento degli impulsi alla licenza più sfrenata.
- Il postfordismo è la realizzazione empirica del “Frammento sulle macchine” di Marx. Aristotele e Hanna Arendt che lo ha ripreso, dividono l’esperienza umana in tre ambiti: Lavoro (o poiesi), Azione Politica (o prassi) e Intelletto (o vita della mente): per Virno oggi questa suddivisione va in crisi. In termini tradizionali il lavoro è ricambio organico con la natura , produzione di nuovi oggetti, processo ripetitivo e prevedibile. L’Intelletto puro ha un’indole solitaria e inappariscente : la meditazione del pensatore sfugge allo sguardo altrui e mette la sordina al mondo delle apparenze. Diversamente dal lavoro, l’Azione politica interviene sulle relazioni sociali,non su materiali naturali; ha a che vedere con il possibile e con l’imprevisto; non ingombra il contesto in cui opera con ulteriori oggetti , ma modifica questo stesso contesto. Diversamente dall’Intelletto, l’Azione politica è pubblica, consegnata all’esteriorità, alla contingenza, comporta per H. Arendt “l’esposizione agli occhi degli altri.”Virno sostiene che il lavoro postfordista ha assorbito in sé molte caratteristiche dell’azione politica. L’inclusione nella produzione contemporanea di certi tratti strutturali della prassi politica aiuta a capire perché la moltitudine postfordista sia oggi una moltitudine spoliticizzata.
Riprendendo Aristotele (Etica Nicomachea), Hanna Arendt paragona gli artisti esecutori, i virtuosi , a coloro che sono impegnati in politica: “Le arti che non realizzano alcuna opera hanno grande affinità con la politica . Gli artisti che le praticano –danzatori, musicisti, attori e simili- hanno bisogno di un pubblico a cui mostrare il loro virtuosismo, come gli uomini che agiscono politicamente hanno bisogno di altri alla cui presenza comparire : gli uni e gli altri hanno bisogno di uno spazio a struttura pubblica, e in entrambi i casi la loro ‘esecuzione’ dipende dalla presenza altrui” (Vita activa e Passato e presente). Si potrebbe dire che ogni virtuosismo è politico. Anche Marx parla (nel cap. VI inedito del Capitale e nelle Teorie del plusvalore) di pianisti, oratori, ballerini ecc. Marx analizza il lavoro intellettuale distinguendo in esso due specie principali. Marx qui non si cura dell’azione politica, ma distinge due diverse figure lavorative. Egli applica la distinzione attività-senza-opera e attività-con-opera a determinati tipi di poiesi. Da una parte l’attività immateriale o mentale che ha “per risultato merci che hanno un’esistenza indipendente dal produttore, libri, quadri, oggetti d’arte in generale in quanto distinti dalla prestazione artistica di chi li scrive , dipinge o crea”. La seconda specie di lavoro intellettuale comprende per Marx tutti coloro il cui lavoro si risolve in una esecuzione virtuosistica: pianisti, maggiordomi, ballerini, insegnanti , oratori, medici, preti ecc. Ora il lavoro intellettuale che produce un’opera non pone particolari problemi ( è lavoro produttivo senz’altro), mentre il secondo tipo di lavoro intellettuale “senza opera” lo mette in imbarazzo. Egli nota una forte rassomiglianza tra l’attività dell’artista esecutore e le mansioni servili. Lavoro servile è quello per cui non si investe capitale, ma si spende un reddito ( per esempio : i servizi personali di un maggiordomo). In sostanza Marx accetta di fatto l’equazione lavoro-senza-opera = servizi personali. In conclusione quello virtuosistico è per Marx “lavoro salariato che non è nello stesso tempo lavoro produttivo”. Nel postfordismo il Lavoro richiede uno spazio a struttura pubblica e somiglia a una esecuzione virtuosistica (senza opera). Questo spazio a struttura pubblica , Marx lo chiama “cooperazione”. Si potrebbe dire: a un certo grado di sviluppo delle forze produttive sociali , la cooperazione lavorativa introietta in sé la comunicazione verbale , somigliando quindi a una esecuzione virtuosistica o, appunto, a un complesso di azioni politiche [Cfr. Max Weber sulla politica come professione e il toyotismo]. La produzione contemporanea diventa “virtuosistica” e quindi politica proprio perché include in sé l’esperienza linguistica in quanto tale . Se è così la matrice del postfordismo va reperita nei settori industriali in cui si ha “produzione di comunicazione a mezzo di comunicazione”. Dunque nell’industria culturale [Cfr. La vita agra di Luciano Bianciardi:”Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un PRM [public relation manager]? come si fa a calcolare la quantità di fede, di desiderio di acquisto, di simpatia che costoro saranno riusciti a far sorgere? No non abbiamo altro metro se non la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più sù, insomma di diventare vescovo [up or out]. In altre parole a chi scelga una professione ternaria o quaternaria [Costoro né producono dal nulla, come i contadini, né trasformano come gli operai. Non sono né primari né secondari. Sono ternari o addirittura quaternari. Non sono strumenti di produzione e nemmeno cinghie di trasmissione. Sono lubrificanti, al massimo, sono vaselina pura”] occorrono doti e attitudini di tipo politico. La politica come tutti sanno ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo ed è diventata arte della conquista e della conservazione del potere (=arte della sopraffazione?).
Per Virno il concetto di spettacolo è una nozione utile per esaminare alcuni aspetti della moltidudine postfordista. Lo spettacolo ha una doppia natura come il denaro (merce e mezzo di scambio). Se il denaro mette capo allo scambio , lo spettacolo, comunicazione umana divenuta merce, mette capo alla cooperazione produttiva. Tradizionalmente, l’industria dei mezzi di produzione è l’industria che produce macchine e altri strumenti, da impiegare nei più diversi settori produttivi. Tuttavia in una situazione in cui gli strumenti di produzione non si riducono a macchine, ma consistono in competenze linguistico-cognitive, inscindibili dal lavoro vivo è lecito ritenere che una parte cospicua dei mezzi di produzione consista in “tecniche e procedure comunicative”. Ebbene, dove sono forgiate queste tecniche? L’industria culturale (o spettacolo) produce (innova, sperimenta) le procedure comunicative che sono poi destinate a fungere come mezzi di produzione nei settori più tradizionali dell’economia contemporanea.
- La moltitudine riflette in sé la crisi della società del lavoro. Opportunismo e cinismo come tonalità emotive delle moltitudini. Curiosità (distratta) e chiacchiera (non referenziale) come attributi ambivalenti della moltitudine contemporanea (Heidegger vs Benjamin)
- Per la moltitudine postfordista viene meno ogni differenza qualitativa tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro. Marx nei Grundrisse scrive che con la grande industria automatizzata e l’applicazione intensiva e sistematica delle scienze della natura al processo produttivo , l’attività lavorativa “si colloca accanto al processo di produzione immediato anziché esserne l’agente principale” (Marx Grundrisse II, 401). Questo collocarsi accanto al processo di produzione immediato significa, dice ancora Marx, che il lavoro coincide sempre più con un lavoro di “sorveglianza e coordinamento”. Detto altrimenti le mansioni dell’operaio o dell’impiegato [nel cui ufficio ormai i computer fanno la maggior parte del lavoro] non consistono più nel conseguimento di un singolo scopo particolare, ma nel variare e intensificare la cooperazione sociale. Il concetto di cooperazione sociale è in Marx assai complesso e delicato e può essere concepito in due modi diversi. Vi è anzitutto un’accezione oggettiva: ciascun individuo fa cose diverse e specifiche che vengono messe in relazione dall’ingegnere o dal capo fabbrica: LA COOPERAZIONE IN TAL CASO TRASCENDE L’ATTIVITA’ DEGLI INDIVIDUI , NON HA RILIEVO NEL LORO CONCRETO OPERARE. In secondo luogo però bisogna anche considerare la nozione soggettiva di cooperazione: essa prende corpo QUANDO UNA PARTE CONSISTENTE DEL LAVORO INDIVIDUALE CONSISTE NELLO SVILUPPARE, AFFINARE E INTENSIFICARE LA COOPERAZIONE STESSA. Nel postfordismo prevale questa seconda accezione di cooperazione [USO DEL FURTO DELL’INFORMAZIONE OPERAIA = si ha un cambiamento rilevante allorché la mansione dell’operaio o dell’impiegato consiste proprio nel trovare ESPEDIENTI, TRUCCHI, SOLUZIONI che migliorino l’organizzazione del lavoro]. In quest’ultimo caso l’informazione operaia non è utilizzata di soppiatto , ma è richiesta esplicitamente, cioè diventa uno dei compiti lavorativi. Il cambiamento si ha per l’appunto a proposito della cooperazione : non è la stessa cosa se i lavoratori sono coordinati di fatto dall’ingegnere o se si chiede loro di inventare e produrre nuove procedure cooperative. Anziché restare sullo sfondo, l’agire di concerto, l’interazione linguistica viene in primissimo piano. Allorché la cooperazione “soggettiva” diviene la principale forza produttiva , le azioni lavorative mostrano una spiccata indole linguistico-comunicativa, implicano l’esposizione agli occhi occhi degli altri. Viene meno il carattere monologico del lavoro : la relazione con gli altri è un elemento originario, basico, non qualcosa di accessorio. Del resto che cosa significa il discorso sulla “qualità totale” se non la richiesta di mettere a disposizione della produzione il gusto per l’azione, l’attitudine ad affrontare il possibile e l’imprevisto , la capacità di cominciare qualcosa di nuovo? Quando il lavoro sotto padrone chiama in causa il gusto per l’azione ecc., possiamo dire che alcuni tratti distintivi dell’animale umano , anzitutto il suo aver linguaggio sono sussunti dentro la produzione capitalistica. La sussunzione della stessa antropogenesi nel modo di produzione vigente è un evento estremo: nessuno è così povero come colui che vede la propria relazione con la presenza altrui, ossia la propria facoltà comunicativa, il proprio aver linguaggio ridotti a lavoro salariato [anarchismo?]
Il general intellect si presenta anzitutto oggi come comunicazione, astrazione, autoriflessione di soggetti viventi. Sembra lecito affermare che per la logica stessa dello sviluppo economico, è necessario che una parte del general intellect non si rapprenda in capitale fisso , ma si esplichi nell’interazione comunicativa in forma di paradigmi epistemici, performances dialogiche, giochi linguistici ecc. Detto in altri termini l’intelletto pubblico fa tutt’uno con la cooperazione, con l’agire di concerto del lavoro vivo ,con la competenza comunicativa degli individui. Il concetto di cooperazione comprende in sé per intero, l’attitudine cooperativa degli esseri umani [L’intelletto come riparo dalla rischiosità del mondo e adesso come lavoro capitalistico]. La domanda cruciale a questo punto suona così: come è possibile un virtuosismo non servile? Come si passa dal virtuosismo servile a un virtuosismo repubblicano ( intendendo per “repubblica” un ambito degli affari comuni non più statali? Come concepire in linea di principio l’azione politica basata sul general intellect? Propongo due parole-chiave: disobbedienza civile e conflitto sociale come esodo, come defezione, non come voice ma come exit.
- Nel postfordismo sussiste uno scarto permanente tra “tempo di lavoro” e un più ampio “tempo di produzione”
- Il postfordismo è caratterizzato dalla convivenza dei più diversi modelli produttivi e, per altro verso, da una socializzazione extralavorativa essenzialmente omogenea. Forse, dice Virno, l’infanzia è la radice ontogenetica di ogni successiva ricerca di protezione dagli urti del mondo circostante. Il bambino si protegge attraverso la RIPETIZIONE (ancora una volta la stessa favola o lo stesso gesto o lo stesso gioco). La ripetizione va intesa come una strategia protettiva nei confronti degli chocs causati dal nuovo e dall’imprevisto. L’esperienza infantile della ripetizione (notata da Simmel e Benjamin)si prolunga anche in età adulta , perché costituisce la principale forma di riparo , là dove manchino solide abitudini , comunità sostanziali o un ETHOS tutto tondo. Nelle società tradizionali (se si vuole: nell’esperienza del popolo) la ripetizione cara al bambino lasciava il posto a forme di protezione più complesse e articolate: usi, costumi, abitudini ecc. La pubblicità della mente, l’appariscenza dei luoghi comuni, il GENERAL INTELLECT si manifestano anche come ripetizione rassicurante. E’ vero, la moltitudine odierna ha qualcosa di infantile , ma questo qualcosa è quanto mai serio.
- Nel postfordismo il general intellect non coincide con il capitale fisso, ma si manifesta principalmente come interazione linguistica del lavoro vivo.
- L’insieme della forza-lavoro postfordista, anche la più dequalificata, è forza lavoro intellettuale, “intellettualità di massa”. Le risorse essenziali su cui si può contare per proteggersi dalla pericolosità del mondo possono essere identificate per Virno con un concetto linguistico: i “luoghi comuni” o TOPOI KOINOI, che per Aristotele sono le forme logiche e linguistiche di valore generalissimo che costituiscono la struttura ossea di ogni nostro discorso, ciò che consente e ordina qualsiasi locuzione particolare. Sono comuni tali “luoghi” perché nessuno (l’oratore raffinato come l’ubriaco che smozzica parole, il commerciante come il politico) può farne a meno. Aristotele ne elenca tre: il rapporto tra più e meno, l’opposizione dei contrari e la categoria della reciprocità (“se io sono suo fratello, lei è mia sorella”). Queste categorie sono per Aristotele la trama della vita della mente, ma sono una trama inappariscente. Ciò che invece si dà a vedere nei nostri discorsi sono i LUOGHI SPECIALI, i TOPOI IDIOI. Essi sono i modi di dire –metafore,battute di spirito, allocuzioni ecc.- che si confanno soltanto all’uno o all’altro ambito della vita associata. I “luoghi speciali”sono i modi di dire/pensare che risultano appropriati in una sede di partito, in una chiesa, in un’aula universitaria, o tra i fan dell’Inter. La trasformazione con cui facciamo i conti oggi si potrebbe riassumere così: oggi i “luoghi speciali” del discorso e dell’argomentazione deperiscono e si dissolvono,mentre acquistano immediata visibilità i LUOGHI COMUNI, ossia le generiche forme logico-linguistiche che imbastiscono tutti i nostri discorsi. “Non sentirsi a casa propria” e pertinenza dei luoghi comuni vanno di pari passo. L’intelletto puro, l’intelletto come tale diventa la bussola concreta là dove vengono meno le comunità sostanziali e si è sempre esposti al mondo nel suo insieme. L’intelletto puro diventa COMUNE E PUBBLICO. Il primo a parlare di intelletto come qualcosa di esteriore e collettivo (contrapponendosi a una lunga tradizione secondo cui il pensiero sarebbe un’attività appartata e solitaria) è stato Marx nel “Frammento sulle macchine”. Non la volontà, ma l’intelletto è ciò che accomuna i produttori secondo Marx: ciò che importa comunque è il carattere esteriore , sociale, collettivo che compete all’attività intellettuale allorché essa diventa, secondo Marx, la vera molla di produzione della ricchezza. La “moltitudine dei senza casa” perviene giocoforza allo status di pensatori. I “senza casa” non possono che comportarsi che come pensatori , non perché sappiano di biologia o di matematica superiore, ma perché fanno ricorso alle più essenziali categorie dell’intelletto astratto per parare i colpi del caso.
- La moltitudine mette fuori gioco la teoria della “proletarizzazione”
- Il postfordismo è il comunismo del capitale Cfr articolo di Ferraris su Repubblica